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Sotto assedio

Lotta femminista e derive neofasciste alla Fortezza di Bellinzona

I luoghi del patrimonio culturale sono spazi in cui la Storia viene continuamente negoziata, poiché vi si stabilisce quali narrazioni meritino di essere preservate e quali, invece, vengano marginalizzate. La fortezza di Bellinzona rappresenta un caso emblematico di tale dinamica.

 

La fortezza di chi? I castelli di Bellinzona, patrimonio mondiale dell’UNESCO, sono stati più volte utilizzati come scenario per interventi di carattere politico. © Keystone

In una tranquilla giornata d’autunno del 2023, la Torre Bianca del Castel Grande di Bellinzona è divenuta il teatro di uno scontro ideologico contemporaneo. Un’esplosione di fumo rosso e lo srotolamento di uno striscione con la scritta «migranti a casa – migrants go home» hanno temporaneamente trasformato il sito in un simbolo di intolleranza. L’azione è stata rivendicata dal gruppo neonazista di estrema destra Junge Tat, attivo in Svizzera e diversi paesi europei almeno dal 2020. Attraverso l’uso di simboli come la runa Tyr – già emblema delle SS e della Gioventù hitleriana – e dello slogan «Fortress Europe» (Festung Europa), quattro figure dal volto coperto hanno riplasmato le antiche fortificazioni in un simbolo di difesa identitaria e purezza razziale, sostenendo retoriche di esclusione e di «rimigrazione», eufemismo per pulizia etnica.

Il gruppo ha fatto leva sulla nuova denominazione del sito: «Fortezza». Fino a poco tempo fa, infatti, si parlava dei «Castelli di Bellinzona». Il cambiamento, motivato da ragioni di maggiore coerenza storica e da strategie di valorizzazione culturale, ha involontariamente fornito un lessico suscettibile di appropriazione ideologica. La parola «fortezza» è stata reinterpretata come simbolo di difesa identitaria, modificando temporaneamente la percezione di un luogo di memoria condivisa.

 

Storia rivisitata

La Fortezza è stata più volte utilizzata in passato come scenario per interventi di carattere sociale o politico. Nel marzo 2021, la GISO Ticino (Gioventù Socialista) vi aveva appeso, in occasione dell’8 marzo, uno striscione con la scritta «non siamo più nel medioevo». Lo striscione richiamava l’attenzione sulle disuguaglianze di genere ancora presenti e rivendicava, in chiave femminista, un superamento dei retaggi patriarcali.

Al momento dell’azione di Junge Tat, era in corso la preparazione di una mostra temporanea dedicata alla storia del sito, concepita per dialogare con la comunità locale nell’ambito dei progetti di rinnovamento espositivo. In quell’occasione, lo striscione esposto dalla GISO Ticino fu ripreso dalla curatela come titolo dell’esposizione stessa: Non siamo più nel medioevo: dai castelli alla Fortezza.

 

Striscione con la scritta «non siamo più nel medioevo» esposto dalla GISO Ticino (Gioventù Socialista) a Castel Grande, Bellinzona, in occasione della Giornata internazionale della donna dell’8 marzo 2021. © GISO Ticino

Il titolo, al tempo stesso ironico e critico, si poneva come una negazione giocosa ma precisa di uno degli obiettivi centrali del progetto di valorizzazione del sito. Le nuove esposizioni permanenti intendono infatti concentrare la narrazione sul periodo tardo-medievale, quando la Fortezza raggiunse la sua massima estensione sotto il dominio visconteo e sforzesco. La scelta del titolo proponeva invece che rivisitare la storia del luogo significa anche interrogare criticamente le strutture sociali e simboliche su cui tale storia si è fondata.

 

Inclusione anziché esclusione

Nella documentazione archivistica relativa alla vita della Fortezza tra XIII e XVI secolo, infatti, le donne risultano quasi del tutto assenti. Un decreto del 1400 del duca Gian Galeazzo ne vietava esplicitamente l’accesso al complesso fortificato, a segnale di un’esclusione non marginale ma strutturale. Essa contribuiva alla definizione del soggetto militare maschile, lo stesso modello simbolico al quale Junge Tat fa implicitamente riferimento attraverso la propria azione. L’assenza delle donne riflette una più ampia organizzazione sociale ed economica fondata sulla violenza patriarcale e militare che prosegue in diverse forme ancora oggi.

Pur non essendo stata concepita come risposta diretta all’azione di Junge Tat, la mostra ne ha costituito una forma di replica indiretta. Essa, attraverso la scelta mirata del titolo, ne adottava un linguaggio analogo – uno striscione realizzato artigianalmente, frutto di un lavoro collettivo e pensato per ottenere visibilità attraverso la spettacolarità e il richiamo al passato – ma lo reimpiegava in senso opposto, a favore dell’inclusione anziché dell’esclusione.

 

Tradizione selettiva

Dalla lettura incrociata degli episodi emerge un nesso fondamentale: le forme di esclusione di genere e quelle di matrice xenofoba condividono una medesima logica identitaria, fondata sulla costruzione del sé attraverso il rifiuto dell’altro. L’esclusione delle donne dalla Fortezza medievale e quella dei migranti evocata da Junge Tat ne rappresentano due manifestazioni storicamente e simbolicamente connesse.

Come ricorda Stuart Hall1, il patrimonio non è mai neutro, ma costituisce una «tradizione selettiva» che valorizza alcune memorie marginalizzandone altre. La Fortezza di Bellinzona incarna appieno questa tensione proprio nel suo nuovo appellativo. Definita «porta e chiave d’Italia» sotto i duchi milanesi, i castelli della città cambiarono più volte denominazione nel corso dei secoli. Furono ribattezzati a proprio nome dai cantoni confederati dopo la conquista del XVI secolo, poi dedicati in seguito a San Michele, San Martino e Santa Barbara nel contesto della costruzione identitaria ottocentesca ticinese, e portano oggi i nomi di Castel Grande, Montebello e Sasso Corbaro – tuttavia non ancora non del tutto stabilizzati.

Questo palinsesto onomastico rivela la natura dinamica del patrimonio, inteso come processo continuo di ridefinizione e proiezione identitaria. In tale prospettiva, la provocazione di Junge Tat non rappresenta un’eccezione, ma l’espressione estrema della politicizzazione intrinseca al patrimonio culturale.

 

Dibattito politico

Il patrimonio culturale può oggi essere sottratto alle logiche di dominio che lo hanno storicamente costituito e diventare uno strumento di inclusione? La risposta non è univoca, ma forse gli interventi di Junge Tat, della GISO Ticino e dei tanti altri attori dimostrano come il patrimonio resti sempre un terreno di confronto politico. La questione, forse, non è se politicizzarlo, ma quale politica esso renda possibile.

1Stuart Hall, «Whose Heritage? Un-settling ‹The Heritage›, Re-imagining the Post-nation», in: Third Text, no. 49 (Winter 1999), p. 3–13.